La volta scorsa abbiamo visto come i romani hanno iniziato ad interessarsi dell’area attorno a Rovato, insediandosi tra gli alleati Cenomani di Brescia ed i nemici Insubri di Milano, mostrandovi i segni ancora evidenti lasciati dalla centuriazione con cardine Coccaglio-Pompiano.
Sappiamo che Roma effettuò 5 grandi centuriazioni del bresciano. Tra le più antiche, quella a confine con l’agro di Cremona, fondata nel 218 a.C. dai latini, in cui risultarono presenti 6.000 coloni. Per continuità, quella centuriazione fu estesa oltre l’Oglio interessando le aree attorno a Quinzano. La più grande centuriazione riguarda tuttavia quell’area appena fuori dalla nostra città fino alla brughiera di Montichiari, avente cardine a cavallo della strada Brescia-Cremona.
Questo processo fu lento e graduale, via via che i nuovi coloni arrivavano e si mescolavano ai cenomani autoctoni, integrandosi gli uni cogli altri. Infatti, se per le due centuriazioni a ridosso dell’Oglio parliamo degli anni fra III e II sec. a.C. per la grande centuriazione sulla strada Brescia-Cremona parliamo del I sec. a.C. Probabilmente quando Brixia fu riconosciuta nel 89 a.C. come colonia latina fittizia dalla Lex Pompeia. Da qui il processo accelerò: quarant’anni dopo, la Lex Iulia Municipalis la riconosceva Municipio della Repubblica Romana ed infine, in un periodo compreso tra il 27 e l’8 a.C., Brixia salì al rango di Colonia Civica Augustea.
Il collegamento diretto tra Cremona e Brescia ha certamente favorito lo sviluppo, la bonifica e l’interesse latifondistico in quest’area, così come anche nell’area a ridosso di Lonato e del basso Garda, sull’asse con Verona. È stato stimato che la città di Brescia non avrebbe superato i 9.000 abitanti, mentre nell’agro sud-orientale verso Montichiari avrebbero vissuto circa 40.000 persone e vi fossero concentrate circa 250 ricche famiglie (gens) latifondiste che aggregate possedevano un patrimonio di circa 35.000 piò.
Questo spiccato interesse per quelle zone, unito alle successive annessioni di terre ricche di minerali come le valli Trompia, Sabbia e Camonica, indussero i romani a disinteressarsi di quell’area a sud del Monte Orfano e della Franciacorta, della quale probabilmente già i cenomani non avevano avuto particolare interesse. L’immagine mostra i principali ritrovamenti archeologici di epoca romana (punti rosa) che scarseggiano nell’area evidenziata, lasciata dai romani in gran parte allo stato selvaggio. Il contado di Rovato evidenziato in blu ha avuto la stessa sorte.
Non lasciarono completamente disabitata la zona a sud dell’Orfano, viste le testimonianze archeologiche (in gran parte però non vanno più indietro del I-II sec. d.C.). Perché i romani avevano già identificato tutta quella pianura come ricca di risorgive da cui attingere facilmente per l’irrigazione e ne avevano riconosciuto l’alta fertilità, soprannominandola “ager farraticanus”. Sicuramente nell’area tra Rovato e Chiari, dove si estendevano vasti prati e radure, devono aver investito un certo interesse. Taluni credono che la seriola più antica dell’ovest bresciano, la Vetra, fosse stata scavata proprio da loro. A supporto della sua antichità sarebbe documentato l’allargamento della stessa, “concesso” da Pietro Orseolo, nel 976.
Eppure buona parte del nostro contado, ricoperto da vaste estensioni boscate di salici, carpini, ontani e betulle fu lasciato alla natura tra acquitrini e risorgive. A dare un ordine ci avrebbero pensato i monaci del medioevo, ma anche loro non si impegnarono a fondo in Franciacorta. Almeno fino all’anno mille, quando i due grandi monasteri di Leno e di S. Giulia/S. Salvatore furono ben lieti di cedere quell’area ancora paludosa e ricca di boschi e terre incolte, ai nuovi arrivati che piantarono la loro base a Rodengo: i cluniacensi. Per quanto riguarda la campagna a sud di Rovato, qualcosa fece la pieve di Coccaglio, ma vedremo come ci vollero ancora molti secoli prima di strapparla alla natura.
Alberto Fossadri