Nell’emergenza che sembra non finire mai, abbiamo assistito a mutamenti molto rapidi nella percezione della gente sulla pandemia di Covid-19.
Siamo passati dalla fase dell’indifferenza a ciò che stava accadendo in Cina, all’emarginazione dello straniero, passando poi al terrore, con code nei supermarket, per finire con un tranquillizzante senso di minimizzazione della malattia, fake news, disprezzo verso la scienza e proposte di rimedi assurdi.
Ecco, si tratta di scene già viste che storici e sociologi conoscono bene.
Ho sentito molti dire che la percezione di essere tutto sommato al sicuro è giustificata, perché se la malattia fosse stata realmente grave la gente sarebbe più attenta…
Niente di più falso! Quasi tutti abbiamo letto i Promessi Sposi del Manzoni che minuziosamente ha descritto la Milano appestata del 1630: assalti alle panetterie, disprezzo dei medici, paura degli stranieri, caccia agli untori, voci incontrollate e ciarlatani che promettevano soluzioni.
Che le false notizie possano essere dannose per la società lo aveva già imparato Rovato durante il periodo della peste di S. Carlo (1576-1577).
L’epidemia che uccise un terzo degli abitanti di Iseo non toccò il nostro comune, ma Rovato si trovò momentaneamente bandita dai paesi vicini, che non permettevano a nessun rovatese di lasciare il comune a causa di Paolo Martinazzi di Alessio, che propagandò la falsa notizia della morte di peste di tale Francesco Lazzaroni di Paolo.
Il Lazzaroni invece era vivo e vegeto, perciò Paolo Martinazzi fu esemplarmente punito per dissuadere altri dal mettere in giro notizie che potevano nuocere alla comunità.
Tanta rabbia sta provocando il Green Pass, non sapendo che già secoli fa si usavano le “Fedi di Sanità”: un lasciapassare per i viaggiatori in cui si attestava la loro provenienza da comuni “peste-free”, che venivano timbrati ad ogni ingresso in altro comune libero da contagio dai rispettivi deputati alla sanità.
A ben sottolineare l’abi-tudine a questa usanza si pensi che negli archivi esistono documenti simili perfino per vacche e buoi venduti sul mercato di Rovato, i quali attestavano la provenienza delle bestie da territori esenti da malattie bovine (e poi dicono che la burocrazia è un’invenzione recente).
Questi lasciapassare erano richiesti anche per entrare nelle locande (guarda un po’!), dove tra l’altro si usava pagare immergendo le monete in una tazza di aceto per disinfettarle.
Il Manzoni rammenta la storia di Ludovico Settala, anziano medico che nel 1630 avvisò i milanesi della presenza della peste nella vicina Lecco.
Non fu creduto. A Brescia abbiamo un esempio contemporaneo: il medico Antonio Ducco che ci ha lasciato un’interessante relazione di quell’epidemia che a Rovato uccise 2.500 anime (metà popolazione). Sappiamo che quello spaventoso contagio apparve sul bresciano da Palazzolo ed egli fu inviato insieme ad altri colleghi ad indagare sulla natura di morti sospette.
I tre medici conclusero all’unisono trattarsi proprio del morbo più temuto e consigliarono diverse contromisure, tra cui l’iso-lamento dei paesi e la chiusura di taverne e botteghe.
Molti non volevano credere si trattasse di peste e sminuivano, ritenendo assurdamente che la causa fosse nell’acqua dell’Oglio guastata, a loro dire, da alcuni funghi che crescevano sulle rive.
Alcuni sostenevano addirittura che i bubboni neri di un morto fossero in realtà lividi da percosse che aveva subito da alcuni banditi… pura negazione della realtà! Sconfortato, il Ducco continuava a persistere sulla necessità della quarantena: «Benché si mirassero ne’ loro cadaveri petecchie e bubboni pel dorso e tutto il corpo, nullameno convenire non si voleva che fossero morti di peste […] Quanto più la plebaglia mostravasi ostinata a non credere alla malattia, vieppiù con animo deliberato e mente decisa io incalzavo la separazione dei sani dagli infermi; certo che questa era la sola via ed il solo rimedio per arrestare il male nel suo principio».
Alberto Fossadri