Tea, così era conosciuta, con tal nome chiamata, ma solo a dileggio, perché lei anagraficamente era Alessandrina. Tea non significava niente di brutto, di cattivo e allusivo, no, no, stava come parola inventata ad hoc per deridere e sghignazzare al suo comportamento molto speciale, del tutto o quasi inusuale. Era una donnina minuta nella sua fisicità, sempre mal vestita, sufficientemente coperta in stato miserrimo. Sulle spalle una mantellina impermeabile, si fa per dire, una cuffia-berretta di lana sul capo. Ai piedi un qualcosa che forma di scarpa non aveva.
Passo veloce sempre, sola girovagava per le strade di Rovato quasi sempre china a raccogliere cartacce ed altro; e quando era giorno di mercato, fiera e festività, la si vedeva raccattare sottili carte già usate per avvolgere frutti e dolciumi. Passione maniacale anzi ossessiva che l’aveva pervasa prima degli anni ‘30. E fu proprio in quel periodo di tempo che, al così notarla, qualche adulto iniziò a deriderla inventando e affibbiandole il nome di Tea. Chissà il perché di questo nomignolo?
Lei imperterrita raccoglieva rifiuti che poneva nella capace borsetta che di tale aveva solo lo spazio.
E allora, dopo gli adulti, a schernirla impararono anche i bambini – figuriamoci! – che al sol figurarla cadenzavano ad alta voce: “Tea, Tea, Tea!”; sciocchi, felici e contenti. E lei? Sempre imperturbabile, imperscrutabile. Aveva fatta sua la frase che Virgilio rivolse a Dante: “Non ti curar di loro ma guarda e passa”, riferendosi agli ignavi.
Lei, diplomata maestra elementare che per anni, non sappiamo quanti, aveva insegnato nelle scuole di Stato. Lei, che si chiamava De Bono, come mamma Carolina, era nata a Rovato nel 1899 con dimora in piazza Garibaldi 6; si era sposata a Brescia nell’agosto del 1931 con un certo A.L.. Su di lei poi calò il silenzio totale.
La si rivede poi nei periodi succitati ancora single. Eppure era “blasonata” stante il nome e l’importanza dello zio materno: Emilio De Bono, generale della guerra 1915-1918; maresciallo d’Italia che con Michele Bianchi, Cesare Maria De Vecchi e Italo Balbo aveva fatto parte dei quadrumviri incaricati da Benito Mussolini per la marcia su Roma il 28 ottobre 1922.Quante volte abbiamo visto in tv quell’impettito vecchietto dalla barba bianca, vestito della divisa con galloni da generale e stivaloni, marciare spedito alla volta di Roma, con gli altri tre dinnanzi alla marea che li seguiva! Ed era lo zio della Alessandrina nostra, che sperava e confidava nel nuovo.
Quando capì l’errore ormai era troppo tardi. Nel 1943 aderì alla proposta di Dino Grandi per l’allontanamento di Benito Mussolini, ma pagò con la vita: nel gennaio del 1944, a Verona e con altri, venne fucilato dai repubblichini perché dichiarati traditori. Aveva 78 anni. Nei momenti del fulgore fascista avrà mai saputo l’allora podestà di Rovato, Carlo Torri, che la concittadina De Bono Alessandrina fosse la nipote nientepopodimeno che del ministro delle Colonie Italiane (1929-1935) De Bono Emilio? E così per la Tea quel suo modo di vivere continuò durante e dopo la guerra. Sempre sveltamente a raccogliere rifiuti che regolarmente – si fa per dire – portava a casa. Era una stanza grande che stava a sinistra del portico; in quel palazzone con antistante ampio giardino erano accasate altre due famiglie, una delle quali del dott. Cazzani. A ridosso del muro di cinta del minuto legname vecchio per di più ormai polvere.
E topi di ogni misura a farla da padroni; e pulci dentro e fuori l’abitazione. Ed odori per lo più nauseanti. Era nel 1962 quando l’ufficiale sanitario ed il sindaco decisero per il suo ricovero coatto presso l’ospedale psichiatrico di Brescia. Toccò a me che scrivo accompagnarla. Alle mie poche parole di rito non proferì nulla. Forse un impercettibile sorriso indecifrabile. Le sue guance scavate, ricche di pomellini rossi che sembravano imbellettati la distinguevano sia quando caldo torrido sia con i venti gelidi.
Accompagnavo una ammalata in un sito da rabbrividire, ma certamente non schizofrenica. I suoi atteggiamenti, il suo fare erano ossessivi, null’altro. Non furono necessari né la forza né i modi bruschi. Docilmente accettò le ordinanze, cheta nel viaggio. Sono passati 58 anni, nella mente mi sovvengono quei fatti remoti che sto scrivendo, ma quanta tristezza perché tra gli sciocchi c’ero anche io.
Siamo in tanti ancora in vita a doverle delle scuse perché, se è vero che stramba era, era anche inoffensiva e mite. Alcuni anni dopo, ritornando in quel ricovero ospedaliero conosciuto come “Pilastrù”, chiesi conto dell’ammalata De Bono Alessandrina. Fui accontentato straordinariamente; passando sotto enormi porticati mi accompagnarono dov’era un grande alto portone fatto di un legno di un certo spessore. Lo si aprì con chiavi grosse come quelle che di solito vediamo nelle mani di San Pietro. E là sulla sinistra su di una specie di palchetto stava Lei, vestita con divisa che mi offendeva perché sapeva tanto di prigione. Berrettino in testa, pulitissima, ordinata, linda e – lasciatemelo scrivere – bella come mai l’avrei pensata. Stava riordinando vestiario da poco stirato.
Ci guardammo negli occhi, io come paralizzato ed incantato non seppi aprire bocca. La signora De Bono Alessandrina pure. Ma, avendomi riconosciuto di certo, mi trasmise a regalo un dolcissimo sorriso, ancor più bello perché è sempre adornato di quei pomellini rossi che le arricchivano il volto. Forse è stato il suo modo di perdonare la stoltezza di chi stava al di fuori di quelle tetre e spesse mura. Grazie Alessandrina!
Tarcisio Mombelli
Trascrizione ed adattamento a cura di Emanuele Lopez