orrei parlare di quella sofferenza che le madri sono state costrette ad affrontare, definendolo “dolore patriottico”.
L’ho virgolettato apposta, perché di certo vedere i figli andare in guerra non è stato un sacrificio ambito, ma subito.
Quando si raccontano le storie di guerra ci si dimentica spesso della tacita sofferenza provata da tante donne, costrette dal governo di turno a sopportare l’idea che il figlio diventasse un soldato, o meglio, carne da cannone.
Ho riscontrato che basandoci su quanto leggiamo nei libri di storia, per molti non è immediato empatizzare con chi ha vissuto esperienze drammatiche come queste.
Alle cifre di migliaia di morti per conquistare qualche sassaia del Carso, c’è chi sbadiglia e chi inarca le spalle come se la cosa non lo toccasse. I numeri non danno emozioni, perciò preferisco soffermarmi su un esempio soltanto.
La storia di un ragazzo, o meglio, di una madre: Domenica Stolfini, la quale scrisse una memoria che ho interamente pubblicato sul blog Brescia Genealogia, grazie alla pronipote Lorenzina Taveri che mi ha passato il testo.
Madre di Delpanno Giovanni di Duomo, ha voluto tramandare il ricordo del figlio caduto, del dolore provato e delle gioie che ha avuto nell’averlo a fianco. Scrive infatti «dicevo, Signore vi ringrazio di avermi dato un figlio così laborioso e buono, mentre tante altre mamma più buone e più degne di me piangono amaramente la malavita e i dispiaceri che ricevono dei loro figli! Guai a voi miei cari se fate piangere le vostre mamme».
Era orgogliosa di quel ragazzo del cui destino conosce solo quel che dice il telegramma del-l’esercito: “Delpanno Giovanni, morto combattendo sul campo giorno 14 settembre del 16 monte Nad-Logen.
Fatevi coraggio cari che avete regalato il vostro angelo alla patria”.
Nel manoscritto, Domenica ricorda il momento in cui lo stesso Giovanni, terminato l’add-stramento, gli annuncia la partenza: «Il 20 luglio, miei cari che brutto e memore giorno fu per me, mi si serra la gola e mi trema la mano a descrivervelo, alle 10 antimeridiane sono in casa sola, gli altri erano nel campo, mi arriva il telegramma. “A ore 14,30 arrivo a Brescia e parto per il fronte – Giovanni”».
Tutta tremante Domenica parte di corsa per la stazione cittadina sperando di scorgerlo, aiutata dalla figlia che le dice «Mangiate e bevete mamma» e lei annota «Ma il mangiare e il bere non andavano giù.
Arrivò all’ora prescritta quel magico treno, tutto pieno di ramoscelli verdi e il mio Giovanni ne fece svolazzare uno cacciando fuori il capo dal finestrino “Siete venuta mamma, brava”. Era contentissimo e rideva!»
Anche lei serra nel cuore quella angoscia, quasi premonitrice di ciò che l’attende e racconta in maniera struggente come ha ricevuto la tragica notizia che ogni madre spera di non avere mai: «Quel brutto giorno del 9 ottobre […] in sul far della sera vedo venire sulla soglia della mia cucina la Sig.ra Redona Pierina, allora comitata dei combattenti, in compagnia della Sig.ra Marianna Bertuzzi.
Nell’offrire la sedia a ognuna le dissi. “Oh! Che visite insolite! Mi danno da pensare!”.
E loro si guardavano l’una coll’altra; e con un’angoscia al cuore alzai la mia voce e le dissi: “sarebbero venute per annunciarmi che è andato in paradiso il mio buon Giovanni?” – “Sì cara”, mi dissero insieme, “fatevi coraggio”. In quel mentre arrivò il Signor Arciprete Don Angelo Bianchi con Don Antonio Biloni con un altro prete».
Come si può sopportare un tale sacrificio?
Siamo talmente turbati dalla sola idea di seppellire un figlio che nella nostra lingua forbitissima non esiste un termine per descrivere il genitore che resta “or-fano” del figlio.
Domenica scrive dei sogni che la sua mente le evoca per ammorbidire il dolore, proiettandole visioni del figlio Giovanni in paradiso coi suoi compagni d’armi e gli altri compaesani, che al grido di “Savoia” sono andati avanti, nel Regno dei Cieli.
Alberto Fossadri