La Chiesa di S. Stefano sul monte Orfano, a Rovato, custodiva un messaggio che il tempo ha trasformato in memoria. Sui pilastrini del portichetto, demolito negli anni ‘50, erano dipinti scheletri: figure grottesche ma pregne di significato, che incarnavano la filosofia del memento mori. Non un semplice ammonimento per incutere paura, bensì un invito a guardare oltre sé stessi e a riflettere sulla caducità della vita.
Nella società contemporanea, che spesso abbraccia il carpe diem oraziano, la filosofia del memento mori può sembrare un residuo arcaico. L’idea di “cogliere l’attimo” si concentra su un piacere individuale, relegando la consapevolezza della morte ai margini della riflessione. Tuttavia, il memento mori medievale aveva un altro scopo: non si limitava a ricordare che la morte è inevitabile, spingeva a vivere una vita semplice ma virtuosa, guardando al bene comune e all’eternità.
Questo contrasto tra carpe diem e memento mori è illustrato magistralmente nel “Trionfo della Morte” di Buonamico Buffalmacco. Un affresco conservato nel Camposanto Monumentale di Pisa, dove i cavalieri vivi incontrano i loro pari morti, rappresentati nei diversi stadi di decomposizione. L’arte diventa strumento di meditazione: i cavalieri, simbolo di nobiltà e potere, si rendono conto dell’inesorabile destino umano. Intorno a loro, San Macario indica un cammino ascetico, mentre i monaci illustrano una vita di semplicità operosa, libera dal timore della morte.
Anche il portichetto di S. Stefano, con i suoi scheletri dipinti, aveva questa funzione. L’arte si faceva predica muta, ammonendo i fedeli sulla necessità di trascendere il materialismo e di prepararsi a un destino eterno.
La demolizione del portichetto negli anni ‘50 ha comportato la perdita di questa testimonianza tipica del centro Europa e del nord-Italia, che si ritrova similmente in moltissime altre chiese coeve sparse per tutto l’arco alpino. In una società che tende a rimuovere la consapevolezza della morte, il memento mori degli scheletri dipinti ci ricorda che l’esistenza non è fine a sé stessa, ma un ponte verso ciò che trascende il tempo.
Tornando al “Trionfo della Morte” di Pisa, un’opera che consiglio a chiunque di andare a vedere, la scena che colpisce maggiormente è quella dei giovani immersi nell’amore cortese, ignari del destino che incombe su di loro. Intenti a suonare, banchettare, accarezzare i loro animali e a corteggiarsi rappresentano perfettamente la nostra società: spesso chiusa in una bolla di edonismo e indifferenza nei confronti di ciò che accade nel mondo. La scena però è dominata da una figura che li sovrasta, la Morte, che incombe su li loro ed alza la falce, pronta a mietere il suo raccolto e spezzare il quieto vivere di quei giovani.
Questo monito medievale non intendeva terrorizzare, ma scuotere dal torpore. Come i monaci raffigurati lungo la strada ascetica, intenti a mungere capre o svolgere altre semplici attività quotidiane, il memento mori invitava a riscoprire una vita autentica, attiva e consapevole, libera dalle illusioni del potere e della ricchezza.
Gli scheletri dipinti del portichetto di S. Stefano e gli affreschi del Camposanto pisano convergono su un punto fondamentale: la morte non è solo un destino ineluttabile, ma una maestra che ci spinge a vivere con intenzione. Un messaggio senza tempo che può anche essere slegato dalla religione e mantenere comunque il suo enorme valore. Il memento mori ci ricorda di orientare le nostre azioni verso ciò che conta davvero.
Recuperare questo messaggio significa riscoprire una prospettiva più profonda sull’esistenza, una visione che non nega la gioia del presente ma la arricchisce di significato: accogliere ogni istante con gratitudine e vivere pienamente.
Alberto Fossadri