C’è stato un tempo in cui il bresciano era un territorio sì laborioso e produttivo, ma altrettanto violento e problematico. Lo Stato Veneto guardava con occhio sospettoso e vigile il nostro territorio, percepito in patria e all’estero come una terra omertosa, succube di un intricato mondo di organizzazioni criminali e prolifica di banditi. Non ho descritto la situazione presente del Meridione, ma la realtà del substrato simil-mafioso nella Brescia del XVII sec., che è una certezza storica e tornerò spesso a parlarne.

Certo, questo tipo di violenza era un po’ comune in tutta Italia, ma nel bresciano e nella bergamasca aveva assunto livelli mostruosi, tanto da limitare gli investimenti dello Stato nel nostro territorio e da rendere “la questione bresciana” un affare perennemente all’ordine del giorno nelle riunioni del Consiglio dei X di Venezia.

Talmente aveva pervaso la cultura locale che, nella prima metà del ‘700, il fenomeno era ancora un dato di fatto. Per ovvie ragioni, sociali e geografiche, la maggior parte di questi criminali trovava terreno fertile e protezione nelle vallate, ma sovente si proiettavano i loro interessi e le malefatte anche in pianura.

Tra gli ultimi grandi nomi dell’epopea criminale nostrana troviamo Giorgio Vicario, noto come il Bulo di Pisogne (il termine bresciano “bulo” è assimilabile al “bravo” del Manzoni). Nato nel 1695 sulle sponde del Sebino, è risaputo che da ragazzo si era lasciato coinvolgere dalle vivaci disquisizioni religiose di quel tempo. Il giovane Giorgio aveva certamente partecipato alla vita del convitto che un prete aveva allestito proprio a Pisogne: don Giuseppe Beccarelli. Questo nome è al centro di uno dei più celebri processi per eresia della storia bresciana che qui non tratterò, basti sapere che l’opinione pubblica dell’intera provincia fu enormemente coinvolta nella vicenda.

Giorgio aveva 22 anni ed era tra coloro che presero le difese del prete. Spavaldo e facilmente infiammabile, in una discussione uccise un compaesano che non la pensava come lui. Si nascose sui monti per mesi, poi scese in città. Qui venne riconosciuto e diventò protagonista di una rocambolesca fuga, riuscendo infine a saltare nell’ortaglia del monastero di S. Giulia chiedendo asilo alle monache. Gli sbirri circondarono l’edificio e intimarono alle suore di consegnare il malfattore. Tuttavia, dell’astio correva all’epoca tra monastero e autorità civile, tanto che le monache tennero a precisare che avrebbero difeso in ogni modo le prerogative del cenobio, presentandosi al portone con fucili alla mano… Alla fine Vicario riuscì a fuggire e per evitare di innescare una faida familiare, scappò in Austria dove si arruolò mercenario.

Tornato nel suo borgo, creò una fazione che costrinse i parenti e gli amici dell’ucciso ad abbandonare Pisogne. Spadroneggiò così per tutto il circondario, imponendo il pizzo, organizzando sequestri e chiedendo dazio per il passaggio di chiunque. Come un vero capo-mafia si fece beffa dello Stato facendosi notare in città vestito come un damerino, mentre sfilava tra le nobiltà locali durante la processione del Corpus Domini con spadino al fianco, gilè e marsina ricamata.

Ad un certo punto gli giunse voce che tale Bevilacqua, capitano delle guardie del podestà di Brescia ed equivalente del moderno questore, aveva giurato di catturarlo vivo o morto. Scoperto che il capitano si trovava a Rovato (dove forse abitava), il bulo di Pisogne raccolse 40 sgherri della sua banda e in pieno giorno si parò sotto la casa dove si trovava il Bevilacqua. Nel mezzo della piazza rovatese si mise a giocare a palla coi suoi, pregando gli abitanti di salutargli il capitano, dato che questi non gli aveva fatto la “cortesia” di mostrarsi per ricambiare il saluto.

Alla fine la sua spavalderia gli procurò molti nemici. Altri banditi, da lui vessati, finirono per tradirlo in accordo con le autorità e gli tesero un’imboscata. La sua testa fu portata a Venezia conservata con sale e foglie di lauro e l’intera Valcamonica festeggiò alla notizia della sua morte.

Alberto Fossadri