Funerali di “Seconda” 

Generalmente con un solo cavallo trainante, addobbi scarsi, solamente accennati, privi sull’animale. E il povero sacerdote che partiva a piedi dalla Parrocchia sino alla casa del defunto che poteva essere là al confine di Erbusco in aperta campagna, oppure dall’altra parte del paese, verso il cimitero del capoluogo.  Poveri cristi, li ricordo bene quando sotto il sole cocente dell’estate, vestiti con tonaca fino alle caviglie, calze e scarpe, e sotto il cappello tricorno un fazzolettone che arrivava sino alle orecchie perché il sudore era copioso e continuo.  Lui accanto, il chierichetto che teneva il secchiello dentro il quale l’aspersorio con acqua benedetta da aspergere sul corpo del defunto. 

E quando pioveva il don Berardi di quel tempo che ricordo con scarpe rotte, teneva tra le mani un ombrellone grande così per ripararsi. Ricordo bene, lettore, sempre a piedi, non è facile capire…  La gente che vedeva siffatta disparità ricordava un altro versetto, di tutt’altro significato e allora si mormorava: «Curom, curom, curom, lè pio tante le scarpe che consumom che ch’el che ciapom» (sono più le scarpe che consumiamo che quello che prendiamo).  Sia noto, si perché si sappia, l’unico prete che qualche volta si vedeva pedalare sulla strada si chiamava don Agostino Botti da Coccaglio. Eravamo negli anni ‘30. A quei tempi era inibito ai sacerdoti l’uso delle biciclette, salvo autorizzazione del parroco dove esercitava le sacre mansioni. Lui ebbe questa fortuna perché l’arciprete di Coccaglio, don Dossena, glielo permise. Di quest’ultimo sacerdote-poeta, per la storia locale lo ricordiamo perché autore di meravigliosi versi poetici in onore della Madonna di S. Stefano che ancora oggi cantiamo in quel Santuario.  Per tutti gli altri sacerdoti il periodo dilungò fin dopo la guerra, e ancor di più: fino al 1949.  Contemporaneamente, o quasi, arrivò straripante l’era dell’automobile.  E tutto cambiò in maniera travolgente.  Il resto è nella nostra vita attuale.  

Funerali di “Terza o di povertà” 

Ossignore Iddio, manda un angelo, vedi che roba!  Celso sul carrozzone del tutto privo di addobbi; il cavallo che sembrava vergognarsi perché senza un qualcosa che lo coprisse, la minuscola bara fatta da 4 assi di abete dal color bianco, stridente col nero della mestizia funeraria.  E il sagrestano Siro Bertoni, a incontrare all’ingresso della chiesa il sacerdote povero cristo, la bara con chi la portava e le pochissime persone (a volte nessuna) che seguivano. Prima però era partito l’altro sagrestano, Bigio Piva, il quale spingendo un carrettino a mano era diretto alla volta del camposanto per portare paramenti utili al prete…  Sarebbe poi tornato tirando lo stesso veicolo.  Oh Signore Onnipotente, deh!  La tua bontà e misericordia per i poveri, per i semplici.  

Funerali dei bambini 

Per i “funeralini” qualcosa cambiava sul veicolo, perché addobbato di bianco e di bianco altri Festoni. E quando Celso era arrivato alla chiesa, ecco suonare in concerto le campane “dindin – dindon – dindan, significava allegrezza.  E la gente capiva ch’era morto un bimbo il quale, stante la sua purezza d’anima, era volato direttamente in Paradiso accompagnato festosamente dagli angeli.  

E lo stridio cinguettante delle numerose rondini, che veloci volteggiavano attorno la torre, superba nella sua struttura vetusta, sembra partecipare alla gioia celeste. E dentro il maniero, barbagianni, gufi, civette, rapaci notturni a brontolare a modo loro, perché disturbati nel riposo diurno. Li vedevo quando anche io salivo furtivamente quanto scriteriatamente fin lassù, presso le campane e i merli (quelli di pietra, naturalmente).  

Conclusione 

Sono arrivato alla fine, paziente lettore. Ho deciso di scrivere questo perché siamo ancora nella stagione del freddo e della tristezza. Dopo avere ricordato, la festività dei Santi e dei Defunti, ho ritenuto utile scrivere qualcosa perché in qual modo inerente, pensando soprattutto alla storicità dei fatti e, perché no, costumi.  L’occasione, me l’ha permessa il Celso Marini di Rovato al quale va il nostro grazie, seppur postumo. 

Tarcisio Mombelli

(Trascrizione e adattamento a cura di Emanuele Lopez, 

foto: Onoranze Funebri Marini)