E così siamo arrivati a 100 anni dalla fondazione dell’impresa Pompe Funebri Marini a Rovato. Un secolo di vita da quando, nel 1924, Celso la creò, arrivando a oggi e passando per 4 generazioni: Lui, a seguire Luciano, Luca e oggi Michele. Celso Marini era nato a Rovato nel 1891. Dopo lunghe esperienze da cocchiere per conto di nobili famiglie franciacortine, decise di creare l’omonima impresa in specifico settore delle onoranze funebri con carrozza e cavalli di sua proprietà. Offrì al pubblico un servizio allora del tutto sconosciuto nel territorio, acquistando addobbi per le carrozze, mantelli e finimenti per cavalli. Importante sapere che il Nostro, per la prima volta in zona, aveva approntato e in esposizione una decina di cofani mortuari. Vera innovazione che permetteva la realizzazione contemporanea di camera ardente e feretro.
A quei tempi le bare venivano approntate su misura al momento del decesso. E con l’andare del tempo il nuovo gli diede tanti frutti, ancora più di quanto avesse pensato. Arrivò ad avere 3 carrozze. Una per i funerali di “Prima” (finimenti dei cavalli e del veicolo, nonché 4 “Alfieri” disposti sugli angoli). Un’altra per quelli di “Seconda” (meno addobbi sulla carrozza, nulla sugli animali). L’ultima per i funerali di “Terza o di povertà” (nessun addobbo, povero anche il legno della bara, abete, a volte anche scurito). Quest’ultimo veicolo era poi usato per i funerali dei bambini (tanti) allestendolo con semplici addobbi e festoni bianchi. Nella stalla dell’azienda, 4 cavalli. Testimonianza eccezionale quanto ineccepibile che merita posto negli archivi storici locali, la fotografia che ritrae Celso vestito di “Habit à la Francaise”: giustacorpo, giacca, braghe, calze lunghe, scarpe e cappello tricorno in testa. Lui lassù in cassetta alla guida con redini tra le mani a dirigere cavalli che tanto della vita avevano spartito con lui. Azzardo, ma forse non troppo, quel tal modo di vestire non sarà lo stesso che indossava quando scarrozzava per conto e con a bordo nobili franciacortini?
In quei periodi storici, si sa, nell’alta aristocrazia, era l’abito a fare il monaco e non viceversa come sempre abbiamo creduto. Tal cocchiere in tal guisa vestito avrebbe destato invidia ai pari rango, no? Di certo Celso nel 1924, quando iniziò questa nuova avventura di lavoro, lo indossava. Facile pensare allo stupore dei compaesani rovatesi. Finché 30 anni dopo arrivarono altri cavalli di tutt’altra specie, non più animali, ma di motore. Fu così che l’automobile sostituì le la carrozza. Toccò allora al figlio Luciano prendere tra le mani non più le redini, ma il volante. Celso aveva costruito su solide fondamenta, era arrivato il tempo delle nuove generazioni, a queste toccava l’onore e l’onere della continuità nella persona del figlio Luciano. Un secolo dopo ci sembra bello ricordare questa pagina che farà parte della storia rovatese, seppur senza particolari festeggiamenti ne brindisi. Sarebbe anacronistico, solo per il rispetto degli innumerevoli corpi trasportati nell’ultimo viaggio diretti verso un’altra vita. Frugo nella mente, ricordo… e continuo.
Funerali di “Prima”
Quanta gente a vedere, non sempre per pregare. Quel carrozzone tutto funereo, dal cassone agli addobbi, ai “vestiti” dei due cavalli dal mantello già scuro di per sé, con testa mascherata dove si potevano vedere solo gli occhi; tutto era nero, brrrrr…
E sopra la parte alta del veicolo lavori in legno intagliato posati per l’occasione. E ai quattro angoli gli “Alfieri” chiamati per l’occasione; vestivano naturalmente di nero, camicia bianca, ai piedi polacchini, proprio come quelli che calzavano i ricchi, cappello nero a cilindro con tese, ecc. Tal modo di vestire per loro era solo a Pasqua e Natale. Erano gli Alfieri: Pedersini Giulio, via S. Stefano 19 conosciuto come Pacio di Cia; Belotti Ido, via Cesare Cantù 42, e Marzani, via Fusia 33. Il quarto (chiedo scusa) non lo ricordo e qualcuno al passare del corteo sottovoce in tono canzonatorio, come i trapassati del resto, mormorava: «Endom adagio e cantom be, el mocol l’e’ gros, el scartusì l’e’ pie’» (andiamo adagio, cantiamo bene, la candela è grossa e il borsellino è pieno). E arrivati nella prepositurale, nel mentre il campanone scandiva con nota musicale grave Don, Don, là sull’altare tanti sacerdoti, appena sotto suore, e congregazioni religiose.
All’interno arrivava ancora il suono della banda musicale di Chiari, a quel tempo molto in auge, che sul sagrato ancora intonava marce funebri da accapponare la pelle. E nei primi banchi della chiesa, ai lati del catafalco, gli ereditieri compunti, qualcuno di loro a versare lacrime vere, o forse no. E nel frattempo di tutto ciò, nonché di preghiere canti gregoriani nella funzione della messa, l’anima del fu stava a rendicontare la sua esistenza terrena al cospetto dell’Onnisciente che lo stava a giudicare. Punto. E lui, Celso Marini, lassù seduto in cassetta, vestito come circostanza voleva, ad attendere. Prima nel Viaggio, aveva regolato il passo degli equini da bravo palafreniere qual era.
Fine prima parte…
Tarcisio Mombelli
(Trascrizione e adattamento a cura di Emanuele Lopez,
foto: Onoranze Funebri Marini)