Questo articolo è una parte, adattata, rimaneggiata e sintetizzata, di uno studio più ampio di prossima pubblicazione. Credo e spero entro aprile di quest’anno.
Tra l’aprile 1606 e l’aprile 1607 divampò tra Venezia e la Santa Sede una aspra controversia, nota come l’Interdetto di Venezia (erano sospese in tutto lo stato veneziano le funzioni religiose), che ebbe un’eco enorme negli stati italiani ed europei e tenne in fibrillazione, per le sue implicazioni belliche, le cancellerie di tutta Europa.
La contesa fu originata dall’arresto da parte veneziana di due canonici rei di reati comuni (uno in particolare era accusato di vari omicidi, di stupri e di gravi violenze); arresto ritenuto illegittimo da parte della Chiesa che rivendicava ai fori ecclesiastici il potere di processare i due religiosi. Inoltre, l’approvazione di alcune leggi ritenute necessarie per lo stato veneziano, era contestata dalla chiesa che lamentava un attacco alla libertà religiosa.
Cause tutto sommato non proprio nuovissime; scriverà icasticamente l’amba-sciatore francese a Venezia “che tutto ciò di cui si discute non merita affatto d’alimentare un incendio così grande … che li [Venezia e Roma] porta a una iliade d’inconvenienti per una Elena di così poco merito, che non si trovano altri esempi in tutta la Storia del passato, che la Cristianità sia stata turbata per cosa di così poco conto”.
In un primo tempo Venezia cercò di mantenere il dissidio nell’alveo diplomatico, informando poco i sudditi, adottando l’atteggiamento della Controriforma verso l’eresia. Come scrisse Carlo Ginzburg, “il gregge dei fedeli indotti doveva respingere l’errore possibilmente senza conoscerlo”.
Ma la pubblicazione del monitorio papale (in cui si minacciava di scomunicare il governo veneziano e di lanciare l’interdetto su tutto il territorio dello stato se non fossero consegnati i due canonici e abrogate le leggi contestate), che invitava tutti i religiosi a diffondere le ragioni del papa, sottraeva di fatto l’affare al normale canale diplomatico.
Venezia, allora, fece affiggere in ogni parte del territorio un documento, noto come il Protesto, a difesa delle proprie ragioni e per dichiarare il Monitorio “non solo per ingiusto, et indebito, ma ancora per nullo, et di nissun valore, et così invalido, irrito et fulminato illegitimamente”. In breve tempo ebbe inizio quella che il Sarpi definì “guerra delle scritture”: una inedita e corposa fioritura di pubblicazioni a favore di Venezia o di Roma. Verso la fine di ottobre un reportista, constato l’impossibilità di recensire ogni pubblicazione, scriveva nel suo avviso (oggi diremmo «agenzia di stampa»): “Sono uscite fuora et in stampa et a penna tante scritture che è un subisso però è superfluo nomi-narle”.
Un po’ sconsolato, l’ambasciatore francese a Venezia commentava che l’affare, prima conosciuto da poche persone, d’ora in avanti sarà oggetto di discussione per barbieri e lavandaie (“cognu que de peu de curieux sera doresnavant l’entretien des barbiers e des lavandieres”). Non mancarono azioni di carattere squisitamente militare come le dichiarazioni di alleanze, gli arruolamenti, gli spostamenti di truppe, gli armamenti, ecc. in vista di un probabile sbocco di guerra guerreggiata.
Orzinuovi, fortezza di confine con il più potente degli avversari di Venezia, la Spagna, non poteva non essere oggetto di interesse delle mire spagnole.
Da qui una serie di voci, più o meno fondate, ma comunque vigilate con apprensione da Venezia, che denunciavano complotti, tradimenti, attentati, provocazioni per portare Orzinuovi in mano spagnola.
Una di queste voci, anche se non l’unica, è particolarmente curiosa e credo possa destare l’interesse del lettore.
Il 24 ottobre 1606, a Napoli, al residente veneziano (un ambasciatore senza il titolo di ambasciatore) Agostino Dolce si presenta un religioso, a lui sconosciuto, di un “Ordine assai ristretto”, che è in partenza per un incarico conferitogli dal suo superiore.
Questi, dopo aver raccomandato al Dolce di tenere segreta la sua identità e quella del suo ordine religioso, gli mostra una lettera pregandolo di farne una copia in sua presenza.
La lettera svela che, da tempo, gli Spagnoli hanno definito un progetto per impadronirsi di alcune fortezze veneziane in Lombardia, in primis della fortezza di Orzinuovi (“ma particolarmente gli Orzi per poter da Soncino, luogo confinante, haver subito il soccorso”); detto progetto è ora entrato in una fase esecutiva (“et questo loro disegno era per porsi in effetto al presente”). Ma in che cosa consisteva il progetto, ideato da “un certo Aquilante, et Giulio Mazzeni, Bressani ambi-due”, al soldo del re di Spagna?
Ecco le parole del frate: “Che con pretesto di mercatantia, o di altra occasione, fosse introdotto dentro della fortezza un carro con sopra una cassa ripiena di fuochi artificiali in tal maniera composti che a tempo, et occasione destinata facessero il loro effetto, il qual carro giunto che fosse stato nel corpo di guardia della porta, o in qualsivoglia altro luogo che fosse stimato più proprio, impensatamente abbrucciasse ogni cosa, et uccidesse i soldati, et atterisse col spavento del fuoco ognuno”.
Dopo lo scoppio, un gruppo di soldati nascosti fuori dalla fortezza (“per tal effetto riposti in luogo opportuno”), con l’aiuto di complici dall’interno (“sicuri per qualche altra intelligentia che havessero dentro, come non è dubbio che hoggidì la devano certamente havere, che non li saria fatta resistenza”) fanno irruzione nella fortezza dalla stessa porta in cui è entrato il carro (“entrassero nella fortezza per quella istessa porta ch’era entrato il carro”). La lettera si conclude con un accorato appello: il doge “s’adoperi in virtù del-l’ufficio che tiene, acciocché non lasciando nelle suddette fortezze i custodi di esse entrarvi carri, o altri simili instrumenti senza che prima da qualche fedel ministro non sia veduto ciò che dentro vi stia”.
Il frate, che si dichiara veneziano di nascita, non vuole alcuna ricompensa per la sua delazione essendo mosso solo dal desiderio di pace: “non pretendo recognitione di sorte alcuna nè altro mi ha mosso a publicar ciò, che il desiderio della quiete comune della Christianità, et in particolare della mia patria, la quale io sò essere grandemente adesso insidiata”.
L’attentato non ebbe luogo.