Tra i vincitori della 11 edizione del premio Giuseppe Mattei, istituito annualmente dalla Fondazione Giuseppe Tovini – Cooperazione e Volontariato Internazionale, in collaborazione con il CeTAmb (Centro di Ricerca sulle Tecnologie Appropriate per la gestione dell’Ambiente nei Paesi a risorse limitate) e con l’Università degli Studi di Brescia, c’è anche una monteclarense. Si chiama Viola Onofrio è studentessa all’ultimo anno del Liceo delle Scienze Umane, opzione Economico Sociale, e si è aggiudicata il terzo posto (del valore di 500 euro) raccontando la sua esperienza in Tanzania dove ha trascorso tre settimane in un villaggio Masai insegnando l’inglese ai bambini. Venuta a conoscenza del progetto da una circolare scolastica, Viola ha dovuto convincere i genitori a lasciarla partire per un’avventura che prevedeva uno spirito di adattamento e di umanità non comuni. «Quando ho letto della possibilità di aderire al progetto di volontariato in Tanzania – racconta la giovane – mi sono subito recata in segreteria per chiedere informazioni e contemporaneamente ne ho parlato in famiglia: mia madre era titubante nel lasciarmi affrontare un’esperienza così complessa, mio padre invece mi ha appoggiata da subito. All’incontro informativo con il prof. Antonio Bonetti, docente dell’Istituto Dandolo di Brescia che da quasi vent’anni accompagna gruppi di studenti in questa esperienza, ci sono stati chiariti tutti i dubbi e le perplessità che avevamo sul viaggio, ci hanno rassicurati sui compiti che avremmo dovuto svolgere e sui vaccini ai quali avremmo dovuto sottoporci prima di partire; poi è stato confermato che ero stata accettata nel progetto. È indescrivibile l’insieme di sensazioni che ho provato: al forte desiderio di vivere, seppure per poco tempo, in un mondo completamente diverso dal mio, si contrapponeva il timore di non essere all’altezza. La convinzione di provarci, però, ha vinto su tutto. Il 1 giugno 2023 sono arrivata a Kilolo, nella regione di Iringa, dove sono rimasta tre settimane con il gruppo degli studenti che mi avrebbero affiancata in questa esperienza. Subito abbiamo dovuto pulire tutta la casa, perché non era stata abitata da molti mesi, poi dal terzo giorno abbiamo cominciato il lavoro vero e proprio: al mattino ci si svegliava presto e noi ragazze partivamo a piedi per la scuola, che raggiungevamo con circa un’ora di cammino. L’impatto con la struttura scolastica mi ha colpita profondamente: c’era una lavagna ma non c’erano i banchi e i bambini, che arrivavano per le lezioni da soli anche se erano piccoli, si sedevano per terra in cerchio e ci accoglievano cantando in coro. La musica per loro è fondamentale perché, non avendo giochi, diventa il mezzo per essere felici e per esprimere gioia. Abbiamo insegnato loro l’inglese di base, dopo aver imparato precedentemente alcuni termini in Swahili, e al termine delle lezioni servivamo il pranzo, poiché nella maggior parte dei casi i bambini vivono in situazioni precarie e, in questo modo, avremmo assicurato loro almeno un pasto al giorno. Anche noi mangiavamo a scuola, adattandoci in tutto e per tutto al loro stile di vita: stesso cibo, consistente sempre in riso, fagioli, spinaci e frutta, senza posate né tantomeno un tavolo, tovaglie e tovaglioli. Mi commuovo ancora pensando a quella bimba che ha scritto su un foglio “My friend is Viola” e poi c’era lei, Pincess, che in swahili significa “piccola”, una bambina di 4 anni che dal primo giorno mi ha scelta. Svolgevo tutte le attività con lei in braccio. Era così legata a me che si arrabbiava se qualche altro bimbo mi prendeva la mano. Sono partita con l’obiettivo di aiutare ma in realtà l’aiuto l’ho ricevuto io: i miei bambini di Kilolo, utilizzo il termine “miei” perché il legame che si è creato in quel breve lasso di tempo è proprio di tipo familiare, mi hanno insegnato che si può essere felici pur non possedendo niente. Una volta rientrata in Italia, ho faticato a riadattarmi alle mie abitudini: tutto mi è apparso superfluo; non sento più il bisogno di essere sempre perfetta, di apparire esteticamente sempre al meglio. Ed è una sensazione meravigliosa: accettarsi. L’ultimo giorno a Kilolo è stato davvero triste perché sapevamo che non ci saremmo visti più: ho stretto forte tutti i bambini con la speranza che magari, in un futuro, potrò avere l’occasione di tornare; so che l’Associazione si occupa anche dei progetti Erasmus nella stessa zona e, quando sarà il momento, mi piacerebbe valutare questa scelta».
Marzia Borzi