Il regista Marco Bellocchio ha incontrato gli alunni al Gloria dopo la proiezione del suo ultimo film “Rapito” per il Don Milani. Pubblichiamo l’intervista che gli ha fatto Sofia Roana, studentessa referente del club cinematografico del nostro istituto, che nei giorni precedenti l’incontro aveva dedicato tre giornate all’approfondimento dell’autore, vedendo due suoi capolavori, Il Traditore (2019) e L’ora di religione-Il sorriso di mia madre (2002), studiando articoli di critica e leggendo interviste.
Visionando i suoi film, ci siamo interessati di come lei argomenta il tema della famiglia e della Chiesa. Ne “L’ora religione” abbiamo visto come Chiesa e famiglia costituiscono una comunità d’interessi per riaffermare entrambe le loro posizioni. Tuttavia, il protagonista Ernesto sceglie coerentemente di dissociarsi. In alcune interviste lei cita la famiglia pascoliana, quella che possiede due spinte: una che forzatamente spinge per la ricostruzione, l’altra per l’autodistruzione. In “Rapito” parteggiamo per la famiglia ebraica dato l’evidente abuso della Chiesa che si sostituisce ad ogni suo ruolo. Tuttavia, entrambe falliscono nei confronti del giovane Edgardo, il quale ha aderito a nuovi valori cristiani ma non può dimenticare le sue radici.
La famiglia, allora, è un’istituzione destinata a perire di fronte all’identità dell’individuo oppure può essere superata e recuperata in altro? Mi viene in mente quando Gaber parla di appartenenza…
Una domanda abbastanza complessa. Ne L’ora di religione c’è una forzatura, una critica nei confronti di quel tipo di famiglia perché i suoi componenti vogliono utilizzare la morte della madre per ritrovare il suo potere. Qui (in “Rapito”) c’è una famiglia molto normale, ma di origine ebraica, a cui viene strappato un figlio perché battezzato nella fede cristiana. C’è da parte della Chiesa e dell’istituzione cattolica una scelta estremamente violenta e d’intolleranza nei confronti di un bambino che è di un’altra religione. Oggi i tempi sono molto cambiati, il papa è molto diverso perché, sebbene non metta in discussione i principi della Chiesa, è estremamente tollerante. L’importante è capirsi e dialogare e non violentarsi reciprocamente cosicché ognuno mantenga la propria religione. C’è la possibilità, anzi, di aprire un dialogo anche con chi non crede. Il piccolo Edgardo, infatti, era un bambino che non sapeva come fosse la religione. Oggi la Chiesa deve accettare che molti giovani non hanno nessuna fede e che debba dialogare anche con chi non crede.
Parlando di scelte stilistiche abbiamo notato che in scene che appartengono alla normalità spesso compare un elemento imprevisto. Per esempio negli incubi di personaggi come Papa Pio IX, scena molto simile a quella presente ne “Il traditore” dove Buscetta sogna di essere chiuso nella bara. Com’è possibile questo in un film realista?
Io cerco di partire da una forma di realismo. In questa storia quasi tutto è documentato, ma logicamente la storia non racconta le ore, le abitudini di una famiglia e per questo parte del film ha necessariamente dell’inventato. L’”andare oltre”, invece, vien da sé, sia in senso surreal-caricaturale, per esempio quando il Papa sogna di essere circonciso dagli ebrei, sia simbolico, soprattutto quando il bambino sogna di poter conciliare le due religioni. Edgardo sale e stacca i chiodi dal crocifisso perché nella sua angoscia chiede la pace. Vorrebbe che i suoi genitori potessero convivere con il secondo padre che per lui è il Papa. La mia scelta è dovuta anche ad un certo apparato di immagini legato proprio alla chiesa cattolica. L’ebraismo non prevede immagini, mentre se noi entriamo in una chiesa essa ne è ricolma.
Qual’è il significato che ha l’immagine nei suoi film? È evidente che preferisce far vedere la scena piuttosto che far parlare un personaggio e predilige la gestualità.
Innanzitutto, come prima, non sono scelte. Quando avevo la vostra età mi dedicavo alla pittura, ma quando ho frequentato il Centro sperimentale di Roma ho scoperto il cinema muto, fatto di sole immagini nelle quali l’artista vi immortala qualcosa rinunciando alle parole. Laddove è possibile per me risparmiare sulle parole proseguo nella direzione del muto e prediligo l’immagine. Alcuni al Centro sostenevano che il cinema muto fosse l’età dell’oro, dopo la quale il cinema non si era più superato.
Sofia Roana