Bisognerebbe scrivere la storia delle panchine. bisognerebbe farlo subito, magari alla maniera dei nomadi che non conoscono la storia ma soltanto la geografia. Tanti auguri allora al ricordo che risale il tempo e un salto anche all’oblio che ne segue il corso. Le panchine erano una specie di tribuna d’onore o per meglio dire l’osservatorio astronomico perfetto per lo studio e la contemplazione del mondo. Sulle panchine c’era di tutto: c’erano quelli che volevano cambiare il mondo e c’erano quelli che in questo mondo volevano fare i signori, quelli che sognavano di lavorare da tornitore o da impiegato comunale, tutto rigorosamente al maschile. Di femminile neanche l’ombra. Le ragazze stavano sull’uscio di casa ed era lì che bisognava andare per “filare”. Le ragazze potevano al massimo pedalare in gruppo sui viali ma sedersi sulle panchine proprio no, neanche per mangiare un innocente gelatino. Oggi invece possono sedersi tutti quelli che lo desiderano e che hanno voglia di conversare (come i scèt de na oltò che ia’ndao an pensiù), i nostri pensionati che sono abituè della piazza e che dovremmo ringraziare perché tengono in vita una tradizione che purtroppo sta pian piano scomparendo ed è anche bello sentirli animosamente discutere. Io la chiamerei “Piazza Montecitorio dei pensionati”, come il gruppo di Battista Balansì, sempre accompagnato dalla moglie. Lui è il capo di un gruppetto di amici che al mattino si danno appuntamento in piazza, come Remo, Rico, Luigi, Rino, Renzi e tanti altri.
Parecchi anni fa anche Bruno Taglietti si sedeva sulla panchina con il suo “album notes”, le matite e la penna di china ritraendo le persone e specialmente quelli che si chinavano a bere dalla fontanina. Era uno spettacolo vedere l’abilità e la velocità con cui faceva gli schizzi. Era un ritrattista molto bravo e si può dire che aveva un dono naturale. La voce si era sparsa e tanti venivano in piazza a bere per avere un’immagina da Taglietti e lu, sempre gentile e disponibile con tutti, lo è ancora oggi: l’è proprio en scèt de na oltò.
Per noi bambini questo era il luogo di ritrovo e il parco dei divertimenti, naturalmente si giocava a pallone, suscitando l’ira dei gestori dei negozi dal momento, ogni tanto, ci scappava la rottura di qualche lastra di vetro. L’autore del misfatto se la dava a gambe ma bisognava poi guardarsi dal messo comunale che sbucava all’improvviso per sequestrarci il pallone – o almeno quello che noi chiamavamo pallone che spesso era di stoffa, fatto con stracci arrotolati e legati con elastici ricavati dalla camera d’aria di bicicletta che qualche meccanico ci regalava – e prendere i nomi di chi giocava e poi per punizione ci mandava a pulire le strade del paese. Era una finta per impaurirci un po’ e tenerci a freno. La cosa però funzionava perché avevamo paura dei nostri genitori e quasi sempre ci scappava qualche scapaccione. Innumerevoli erano i giochi che praticavamo in piazza, moltissimi ormai totalmente dimenticati, che richiedevano destrezza e forza fisica. Non voglio qui descriverli perché sono piuttosto complessi.
D’inverno, quando nevicava forte, c’erano gli spalatori della neve, manovalanza stagionale che assumeva il comune, ed era quasi tutti lavoratori edili, muratori e manovali disoccupati perché a quel tempo d’inverno si fermavano per i mesi di dicembre, gennaio e febbraio. Gelo e neve per loro voleva dire lavoro. Pulivano le strade e ammucchiavano quella manna sulla piazza, creando delle piccole montagne che noi univamo per fare la pista di discesa con lo slittino – spesso era fatto di legno ed era la monegà che si metteva nel letto d’inverno – che costruivamo artigianalmente. Era anche il nostro fortino perché da lì lanciavamo le palle di neve. Qualcuno in piazza ci gridava le coordinate per consentirci di centrare il bersaglio. Questo naturalmente provocava la reazione di coloro che erano colpiti e si creavano battaglie di palle. Tanto tempo fa cadeva a novembre e restava fino a marzo o ad aprile.
D’altronde i bambini vivevano completamente all’aperto, in casa andavano soltanto per mangiare e dormire.
Erano in molti e il gioco era una naturale necessità, stare all’aperto senza i bellissimi scarponcini faceva venire geloni che si curano solo con l’ittiolo acquistato in farmacia dal dottor Bontardelli. La fantasia di generazioni di bambini avevano saputo inventare numerosi divertimenti che si praticavano senza l’ausilio di particolari supporti, bastava un poco di destrezza, fantasia, inventiva e molta voglia di stare insieme e divertirsi. Cosa volete di più?
Piero Viviani