A narrarci la situazione negli ospedali a fase 2 oramai avanzata è Michele Tadiello (nella foto), orceano, consigliere della società Nuova Orceania e tecnico radiologo agli ospedali Civili di Brescia.
È suo il volto che abbiamo scelto questo mese per raccontarci l’evoluzione del virus da un punto di vista molto significativo, quello dei risultati che emergono dalle Tac polmonari, a detta di alcuni medici e scienziati ancora più affidabili del tampone nel riconoscimento del contagio da Coronavirus.
A lui la voce per capire se le fauci del drago sono ancora aperte o se ci hanno lasciato un po’ di tregua e se il virus ne è davvero andato in vacanza per farsi magari ritrovare in altra veste, più o meno stanco, chi lo sa, ad inizio ottobre.
“Le polmoniti che ritroviamo in questi giorni nei pazienti sospetti Covid o nei nuovi positivi sono meno gravi, molto meno gravi – ci riferisce – e quindi non da rianimazione. Probabilmente per la riduzione della carica virale data dal lockdown o può darsi anche per la temperatura che aumenta. Il motivo non è ancora certo, anche perché si tratta di un virus nuovo, ma quello che vedo io da radiologo è una riduzione netta della sintomatologia”.
Notizie che parrebbero confortanti, quindi.
Tadiello lavora da ormai da 13 anni agli ospedali Civili e, pur non vantando una esperienza pluridecennale, ne ha abbastanza per tracciare un bilancio di quello che era il suo lavoro prima e di cosa è cambiato ai tempi del Coronavirus.
Nelle sue parole la narrazione di quanto la situazione a fine febbraio si sia improvvisamente rivoluzionata anche negli ambulatori dove svolge la sua professione.
“Non avevamo mai vissuto uno tsunami sanitario di questo genere – ci racconta – e l’esperienza è stata davvero pesante per tutti. Io sono passato dal fare 30 tac al giorno in una normale giornata lavorativa alle 100 dei mesi centrali dell’emergenza. Ma quel che è stato più devastante, al di là dell’orario settimanale che non ha più conosciuto un giorno di pausa, è la condizione di massima tensione alla quale ci si trovava sottoposti. Ai casi gravi e gravissimi che si presentavano numerosi quotidianamente, subentrava il coinvolgimento emotivo, la paura del contagio, nonostante i dispositivi di protezione non fossero mai mancati. Ho dei ricordi lacrimevoli legati a questa tragica vicenda. Nella mente tengo impressi gli occhi di alcuni pazienti che mi guardavano con gli occhi sgranati mentre facevano la Tac e avevano una fame d’aria pazzesca. Si sentivano soffocare. Una sensazione bruttissima verso la quale mi sentivo impotente. Non sono cose che si possono dimenticare. E ne ho visti tanti, per due mesi, tutti i giorni. Poi – continua –ci sono anche alcune storie belle che conservo tra i ricordi. C’era un signore che si è sottoposto alla Tac e nel momento in cui si è avvicinato allo strumento mi ha detto: “Mi saluti mio figlio”. Quasi volesse consegnarmi il suo testamento di addio. L’ho poi incontrato ancora, dopo tre settimane. Era guarito, il suo calvario era miracolosamente terminato. A salutare suo figlio di nuovo è stato lui in persona. E questa per uno che fa il mio mestiere è una delle gioie e delle soddisfazioni più grandi che possano capitare”.
SP