L’8 marzo 2025, al Teatro Civico “M. Bortolozzi” di Manerbio, è stato celebrato con un incontro. Viviana Filippini ha dialogato con un’altra scrittrice: Mariagrazia Fontana, autrice del romanzo “È questo che volevo?” (2024, ed. Temposospeso).

La storia, pur fittizia, contiene molti riferimenti autobiografici. M. Fontana, infatti, è chirurga proprio come Ester, una delle protagoniste. Il volume racconta le vicende di quattro donne: amiche affiatate fin dai tempi dell’università, si trovano ad affrontare il mondo del lavoro e delle relazioni negli anni ’70. È un decennio ricco di trasformazioni, in cui la libertà femminile fa irruzione in famiglia e nel mondo del lavoro, ma in cui permane anche un forte maschilismo: soprattutto negli ambiti medici e scientifici, caratterizzati da una falsa neutralità di genere. Ester è apprezzata per la sua bravura e la sua disponibilità a coprire i turni; ma un’eventuale gravidanza metterebbe a rischio il suo posto di lavoro. Quando cercherà di conciliare professione e maternità, anche il suo corpo porterà i segni della fatica. Non va poi così meglio alla sua amica Bianca, che è medico di famiglia. Da quando è arrivato il computer nel suo ambulatorio, la sua vita lavorativa è stata invasa dalla burocrazia elettronica, che toglie spazio al rapporto col paziente.

Una per una, le protagoniste iniziano ad accusare lo stress di vivere in un mondo che rema contro di loro, contro il loro essere donne indipendenti. Quando uno dei personaggi scomparirà, il ritrovamento sarà l’occasione per porsi la fatidica domanda: “È questo che volevo?” Era quella la situazione che sognavano da studentesse?

Il romanzo di Mariagrazia Fontana entra in profondità in piaghe ancora aperte nella società di oggi. Quando una donna si rende conto che esistono ancora segrete e subdole diseguaglianze, che conciliare la famiglia con la propria vocazione e la propria indipendenza è più difficile per lei che per un uomo, cosa deve fare? La risposta non può essere scomparire e abbandonare ogni relazione. Anche rinunciare al lavoro e rimanere economicamente dipendente a vita non è consigliabile, soprattutto in caso di violenza domestica. Una tentazione individuata da M. Fontana è quella del “mimetismo”: imitare comportamenti considerati prettamente maschili, come il carrierismo e la trascuratezza nei confronti della famiglia. È una soluzione che non porterebbe alcun miglioramento: anzi, impoverirebbe le relazioni affettive e la società in generale.

Il romanzo suggerisce una strada per le donne: ripartire da se stesse, dalla loro esperienza della maternità e delle amicizie femminili. Devono accettare di essere madri imperfette, con le loro ombre e i loro errori, di cui essere consapevoli. Il confronto fra donne aiuta a raggiungere questa consapevolezza e fornisce un supporto reciproco che può durare anche a vita. Le quattro amiche invecchiano sostanzialmente insieme, con il rammarico delle abilità perdute, ma anche con la leggerezza di chi si va liberando dalle aspettative sociali e dalla necessità di progettare. Visto che le protagoniste lavorano in ambito medico, hanno anche familiarità con la morte. Scrivere può essere un modo di “liberarsi” delle storie e di affrontare quella paura di morire che accomuna medico e paziente. La scrittura è per M. Fontana una pausa nello stress quotidiano, un modo di recuperare rapporti e far emergere parti di sé. Scrivere significa raccontare la vita con attenzione, in un mondo sempre più stanco e distratto.

Erica Gazzoldi