La torre campanaria di Rovato, punto di riferimento impossibile da ignorare per chi si avvicina, non è un semplice campanile, e lo si capisce già dalla proprietà che è sempre stata comunale, non ecclesiastica. Infatti, i suoi bronzi non chiamavano i cittadini soltanto per la messa, ma avevano il ruolo di richiamo per ogni funzione civica: come la riunione del Consiglio Comunale, o l’adunata alle armi per difendere il paese.
Secondo i più recenti studi, come quelli condotti dall’archeologo Andrea Breda negli anni in cui furono fatti gli scavi per comprendere le stratificazioni storiche del castello, la torre campanaria corrisponde all’antico mastio della rocca. Come tale avrebbe avuto lo scopo di ultimo baluardo e, soprattutto, centro strategico di comando e avvistamento durante le operazioni belliche.
Nei tempi in cui nei consigli comunali si doveva discutere anche di guerra, la manutenzione delle campane e della torre avevano un’importanza primaria. E si dovevano anche stipendiare coloro che sulla cima della torre passavano gran parte del loro tempo, intenti ad osservare il territorio e pronti a suonare a martello per richiamare all’interno delle mura chi abitava fuori dalla fortezza, far accorrere in armi i militi della guarnigione e avvisare del passaggio di eserciti o bande di fuorilegge.
Se il suo aspetto è di pietra, gli interni ovviamente erano in legno. Dunque, quattro secoli fa capitò che il campanile subì un incendio e lo si vide brillare in tutta la campagna come una gigantesca torcia. Il primo pensiero andrebbe ad un fulmine, magari attirato dal metallo delle campane. A fugare i dubbi sulle responsabilità è un documento recuperato da don Gianni Donni che così recita: «Sotto il 27 luglio [1623] prossimo passato fu attaccato foco per colpa de torresani nella torre di questa terra per il quale abbruggiato tutto quello che conteneva, le campane et uno anco alla sanità della torre. Caddero le campane che però per gratia di nostro Signore si fermarno sul primo solaro et con il concorso di molta gente fu finalmente anco fermato il fuocho».
Non sappiamo chi erano i torrigiani responsabili di questo disastro, ma le campane dovrebbero essere le stesse che erano state fatte fondere un secolo prima, come appare in un documento che ho recuperato dalle provvisioni comunali del 2 novembre 1530. Vista l’importanza, già il 30 si riunì il Consiglio Comunale per avviare immediatamente i lavori di ripristino, chiedendo un prestito in denari a Vincenzo q. Giovanni Antonio Dusini perché era troppo importante avere questo strumento a favore della collettività. Un’urgenza decretata anche dal coinvolgimento della Serenissima nella guerra dei Trent’anni, che in questo periodo vedeva la Valcamonica come un fronte di ammassamento di truppe.
Dei torrigiani che stavano sulla torre, ci si doveva guardare anche per altro… fa sorridere un altro documento reperito da don Gianni, nel quale si lamentava in Comune che alcune persone ferme a chiacchierare sotto la torre, parendo che piovesse levarono lo sguardo al cielo, scoprendo loro malgrado che non era pioggia, ma i torrigiani che pisciavano.
Dubito che le campane presenti oggi siano le stesse di quell’epoca, perché di guerre in cui venivano requisite per esser fuse in cannoni ce ne sono state parecchie da allora e, infatti, nel 1947 mons. Zenucchini si mosse per recuperare il bronzo da fondere in nuove campane. E proprio in quel periodo la torre campanaria aveva ancora la sua funzione extra-religiosa di avviso e speranza: durante gli anni terribili dei bombardamenti era la sirena sul campanile ad avvertire delle incursioni aeree; e il 26 aprile 1945, quando i partigiani issarono sulla torre le loro bandiere, a salutare la fine della guerra fu il campanone che, a quanto pare, a differenza delle altre campane non era stato requisito.
Alberto Fossadri