Si trova sulla strada che collega Manerbio a Porzano e si chiama ancora “Monastero”. Accanto, c’è un ex-cascinale, che si chiama invece “Monasterino”.
Questa cascina era davvero un monastero, quello di S. Maria della Colomba. Il nome proveniva dalla raffigurazione dell’Annunciata nella chiesa monastica, in cui lo Spirito Santo visitava la Vergine sotto la consueta forma di colomba. Una comunità cistercense di monache penitenti risiedeva qui fra il XII e il XIII secolo. Come narra Mons. Paolo Guerrini in “Manerbio, la Pieve e il Comune” (Brescia 1936, Scuola Tipografica Opera Pavoniana), la fondazione vien fatta risalire al 1140 circa, per iniziativa del vescovo di Brescia Manfredo Boccacci (1132-1153). Sostituito allo scismatico Villano, Manfredo fu probabilmente un vescovo riformatore. Degno di nota è il fatto che fosse amico di S. Bernardo di Chiaravalle e che questi l’abbia sostenuto nella lotta contro Arnaldo da Brescia. Nel 1146, Bernardo indirizzò la lettera per la Crociata proprio a Manfredo. Non c’è quindi da stupirsi se lui ha voluto la fondazione in loco di una comunità monastica femminile isolata e rigorosa. Lo spirito riformatore di Manfredo aveva anche un lato economico: così come difese i beni della Chiesa contro la predicazione di Arnaldo, si preoccupò di non far andare disperse le proprietà fondiarie dei monasteri femminili. Il chiostro manerbiese doveva essere un’oasi di ascetismo cistercense. A S. Maria della Colomba Manfredo cedette una parte delle proprietà vescovili di Manerbio, proprio su esortazione di Bernardo. La prima badessa Caracosa si vide confermare da ben quattro papi tutte le concessioni fatte da Manfredo e il monastero fu posto sotto la speciale protezione della S. Sede. Le monache di Manerbio erano altresì esentate da ogni decima anche verso la pieve locale.
La badessa Caracosa rimase in carica per circa quarant’anni e morì in tarda età. Intorno al 1180, le succedette la badessa Zaccaria. A lei, Papa Urbano III confermò i privilegi precedenti e la facoltà di ricevere nel monastero ogni donna libera da vincoli matrimoniali o impedimenti canonici e intenzionata ad abbracciare la vita di penitente. Anche i vescovi di Brescia elargirono al monastero manerbiese concessioni e donazioni, come l’uso dell’acqua del Molone (appartenente alla contea vescovile di Bagnolo) per animare un mulino.
Nel 1294, il vescovo Berardo Maggi giudicò troppo pericolosa la posizione della comunità femminile, tanto isolata ed esposta a scorrerie di malviventi, banditi o soldati. Le monache di Manerbio furono così trasferite a Brescia, nel monastero dei SS. Felice e Fortunato, sotto la regola benedettina. A metà del XV secolo, esso acquisì la proprietà della casa dei Cavalieri Gaudenti, detta di S. Maria di Pace; divenne così “monastero delle Benedettine di S. Maria di Pace”, soppresso solo nel 1797. Nel 1580, una relazione di visita di S. Carlo cita il monastero manerbiese come di proprietà delle Benedettine di S. Maria di Pace, ma in stato d’incuria e impiegato per usi profani (azienda agricola e villeggiatura).
Nel 2017, questo sito dimenticato tornò a far parlare di sé. Proprio laddove c’è il Monasterino, infatti, avrebbe dovuto sorgere il polo logistico oggetto di tante polemiche. Nel 2019, giunse la sentenza del TAR della Lombardia che diede sostanzialmente ragione a Legambiente: pur confutando diverse osservazioni di quest’ultima, riconobbe il valore storico-archeologico della cascina. Non era stata infatti elaborata una relazione paesistica adeguata.
Insomma, le monache favorite a loro tempo da papi e vescovi hanno avuto la meglio anche dalla tomba.