Perché abbiamo scelto di fare il progetto “IlSanto IlMatto Ilfiume”? Lo dicevamo il mese scorso: per fare formazione, per valorizzare il nostro lavoro, per divertici, per far divertire. In questo viaggio siamo partiti da una domanda: “che cosa mancherebbe al territorio se non ci fosse la disabilità grave?” A dire il vero all’inizio non era chiaro quale potesse essere una risposta: tra il serio e il faceto a molti di noi è venuto in mente che a noi sarebbe mancato il lavoro! Ma non ci si occupa di sociale solo perché non si ha altro da fare, questo lo abbiamo capito in molti. La risposta che ci pare plausibile – una delle tante possibili – ha preso forma durante un incontro in un’Amministrazione Comunale: se non “inciampassimo” nella disabilità, nella fragilità, si potrebbe fare finta che siamo tutti forti. Le persone fragili, che, con tutti i limiti che conosciamo, nel nostro paese non sono più confinate in luoghi “speciali”, ma, ad esempio, vanno a scuola, ci obbligano a fare i conti innanzitutto con le nostre di fragilità, anche quando decidiamo di evitarle e negarle. Così ci siamo chiesti se la fragilità non potesse essere considerata un bene comune; siamo poi andati a recuperare la legge 381/91 che regola le cooperative sociali: l’articolo 1 dice: “Le cooperative sociali hanno lo scopo di perseguire l’interesse generale della comunità alla promozione umana e all’integrazione sociale dei cittadini”. Lo abbiamo confrontato con questi trent’anni di cooperazione nella bassa bresciana, attraverso la rivisitazione del nostro lavoro che il progetto di cui parliamo ci ha consentito di fare; giocando con le parole e provando a rispondere alla domanda che apre questo breve scritto, l’art. 1 potrebbe diventare così: la promozione umana è un interesse generale della comunità e, in quanto tale, va tutelata e perseguita; non c’è promozione umana se i cittadini più fragili non fanno parte a pieno titolo della comunità. Se è concesso continuare in questo gioco, ci pare proprio che le cooperative sociali esistano per proteggere la comunità dal rischio di dimenticarsi che non siamo tutti superuomini: che, se è vero che la catena si spezza nel suo anello più debole, occuparsi di fragilità dentro la comunità ha in sé anche un obiettivo molto preciso di buona sopravvivenza della comunità stessa. Ma come si fa? Qualcuno dice che siamo matti, qualcuno che siamo santi… noi pensiamo che per fare bene il nostro lavoro – perché di questo si tratta – bisogna essere bravi; bisogna trovare modi creativi di lavorare sulle proprie e altrui fragilità. Bisogna rischiare: di spingere troppo o troppo poco, di sottovalutare o sopravvalutare, di stare dentro relazioni difficili, che non sai come vanno a finire. Non lo sai. Sai però che c’è un fiume e che con i giusti accorgimenti lo puoi navigare con una buona soddisfazione.
Costanza Lanzanova